È noto che in Convivio III xv 6-10 Dante sostiene che «da noi naturalmente non è desiderato di sapere» che cosa Dio sia. Contraria all’insegnamento di Tommaso d’Aquino, la tesi che l’uomo può raggiungere nella vita terrena una felicità piena proprio perché non pretende di comprendere ciò che, come l’essenza di Dio, eccede la sua razionalità è stata a lungo presentata come eccezionale o addirittura ‘sconcertante’: solo di recente Francis Cheneval, Gianfranco Fioravanti, Pasquale Porro e Paolo Falzone hanno provato a reinserirla nel contesto del dibattito filosofico e teologico, sviluppatosi a fine Duecento, intorno alla natura e ai limiti della conoscenza umana. Al di là di alcuni punti di convergenza, le proposte interpretative di questi studiosi si differenziano però nel valutare la posizione assunta da Dante all’interno di questo dibattito. In particolare, è vero che nel terzo trattato del Convivio egli si muove lungo una linea ‘radicalmente antiaverroista’? Ed è vero che cerca una ‘terza via’ fra Tommaso e gli ‘averroisti latini’?