Nel Paradiso, in mezzo alle luci delle anime beate, Dante cerca costantemente la guida di Beatrice «o per parlare o per atto, segnato’ (Par. XVIII, 54). Può essere allora interessante considerare la dimensione deittica presente nella poesia del Paradiso, focalizzandosi sui gesti visibili e invisibili dell’indicare, contestualizzando tale repertorio gestuale anche nel dialogo con l’arte visiva e con le pratiche liturgico-performative contemporanee a Dante.
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Il contributo intende soffermarsi sull’autorappresentazione di Dante in quanto personaggio e autore della Commedia nei canti del Paradiso, con particolare attenzione all’importanza in tal senso del rapporto con l’ipotesto biblico.
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In Paradiso XIV, quando Salomone espone il mistero della resurrezione dei corpi suscitando il giubilo dei beati, la sua voce viene definita modesta come quella dell’arcangelo Gabriele nell’atto dell’Annunciazione (v. 35). Al pari della similitudine impiegata, anche il termine “modesto” ha una connotazione angelica nel Paradiso dantesco. La voce di Salomone si innesta dunque nella lunga e complessa riflessione dantesca sulla locutio angelica. A partire da un’analisi delle questioni esegetiche e teologiche legate alle modalità dell’annunciazione nonché allo stile salomonico nel tardo medioevo, l’intervento si interroga sulla modestia come cifra della lingua paradisiaca.
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Dante ha forse corretto il suo profetismo nella stretta finale della terza cantica? Descrivendo in Paradiso XXX la città celeste, il poeta sembra in effetti preventivare una non lontana fine del mondo. Ma proprio in quel canto, le terzine su Arrigo VII di Lussemburgo esprimono la persistente fiducia in un rinnovamento epocale, l’attesa insomma della conclusione di una fase storica e non della storia tout court.
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