Figurare il Paradiso, dare forma plausibile a una preghiera, a un dogma. Rappresentare i beati nell’Empireo evitando che l’eccessiva concretezza vada a scapito della atemporalità del mistero. L’arte di fine Duecento-inizio Trecento, quella rivoluzionaria che con Giotto e i Pisano recuperava il vero e uno spazio di nuovo plausibile, non poteva seguire la poesia sino a quelle altezze di mistica astrazione. Il repertorio figurativo cui attingere per descrivere l’indescrivibile era altro. Dalla biblioteca interiore di Dante riemergevano ora le immagini musive dell’arte bizantina, apprezzata dal poeta a Ravenna, Roma, Venezia: riaffioravano le corone di spiriti trionfanti, le croci luminose, gli archi di anime beate, i monogrammi raggiati, i cieli stellati. Immagini totalmente allusive e prive di tutti quegli elementi sensibili che potevano ostacolare l’espressione della trascendenza e della spiritualità.
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Dante - tanto il pellegrino quanto il poeta - vive il viaggio attraverso il Paradiso come una grazia straordinaria che tuttavia non è concepita come arbitraria. Cosa vuol dire meritare la grazia divina nel Paradiso e in quale misura i colori ne fanno parte?
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Il Paradiso sembra confermare il desiderio di Dante di offrire ai suoi lettori una visione fortemente strutturata del cosmo, e del rapporto fra creato e Creatore. Nel descriverci il suo viaggio verso Dio, Dante sembra infatti volerci offrire un resoconto dell’universo che ne riveli sia la struttura spazio-temporale sia la struttura ultima, ovvero il suo essere espressione del disegno divino. Più il pellegrino si avvicina a Dio, però, e più si accorge che questa non è in ultimo comprensibile; e il poeta invita i suoi lettori a riflettere sulla verità che si cela nei suoi limiti e anche nei suoi errori. Prendendo spunto dall'incontro con Pier Damiani in Paradiso XXI e dal riso di Gregorio Magno in Paradiso XXVIII, tracceremo un percorso attraverso il quale Dante sembra voler mostrare che la struttura del Paradiso più si avvicina a quella del creato quando si mostra aperta al mistero in cui ogni struttura in ultimo si dissolve. È in questo dissolversi che Dante colloca il rapporto inscindibile fra giustizia e amore.
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Il Cielo stellato si estende lungo sei canti (XXII-XXVII), più di qualsiasi altro cielo nel Paradiso, e quindi gode di una posizione unica nella struttura e nello sviluppo della terza cantica. Questo intervento si interroga sui motivi che indussero Dante a considerare questo cielo particolarmente importante. Quali sono le questioni qui affrontate che meritano di un trattamento distintivo, e perché tali questioni, che, inter alia, toccano la biografia del poeta, la cultura clericale, le credenziali del «buon Cristiano» (Par. XXIV 25), la lingua umana e la corruzione papale, sono accomunate?
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